volevo solo liberarmi

Volevo solo essere libera e il garzone del bar fu il primo con cui mi liberai.
Si chiamava Giuseppe, per gli amici Pino, ed era un gran chiacchierone. Però gli facevo simpatia e stavamo spesso insieme. A giocare a carte o a dama. Ci giocavamo sempre qualcosa: se vincevo io, lui mi dava una sigaretta che poi ci andavamo a fumare nel rifugio in montagna. Se vinceva lui, dopo mille discussioni otteneva di palparmi le tette – perché diceva che avevo le tette e forse era vero – o di toccarmi il sedere.

Mi piaceva che lui me lo facesse, ma ‘dovevo' oppormi. E alla fine comunque, con suo grande scorno, gli dicevo che non mi faceva né caldo né freddo.
Un giorno ero particolarmente allegra e sotto sotto piena di voglia: gli diedi un bacio e poi gli permisi di battermi addirittura a dama. Lo feci consapevolmente, a bella posta, e lui se ne accorse, persi più volte e ridevo come una matta.
– Visto? Sfortunato al gioco, fortunato in amore.

Chissà che torture mi farai, adesso…
Gli stavo praticamente dando dei suggerimenti. Ma come mi era scappato?
– Razza di puttanella, ora ti faccio vedere io.
Mi portò sulla sua moto da cross nel rifugio in montagna. La strada era accidentata, piena di sobbalzi. Dovevo tenermi letteralmente avvinghiata a lui per non volare e mi riempii le narici del suo odore, le mani della sua carne soda, muscolosa, e il mio pube ne risentì, eccome.

Cosa mi stava succedendo…? Fumammo una Camel in due, poi forzò il chiavistello e lo seguii docilmente dentro il rifugio della forestale. Non appena fummo nella buia e intima umidità di quelle quattro mura, senza dire nulla mi si accostò e cominciò a palparmi le tette e io lo lasciai fare; la cosa che mi sorprese di più non fu tanto che glielo avessi permesso, ma che lo lasciassi letteralmente padrone del mio corpo, e veramente a lungo, perché lui lo faceva veramente bene, roteando le mani con un movimento delizioso e stuzzicando i capezzoli fino a farmeli inturgidire e gonfiare.

Io tenevo il capo chino, verso un punto indeterminato del suo corpo, tra il petto e la pancia, perché non osavo guardarlo negli occhi, mentre lui provocatoriamente mi piantava le pupille addosso. Guardando verso il basso vedevo crescere la sua virilità, eccitata dalla mia femminilità, e mi sentivo ormai persa.
Stava succedendo.
Ogni tanto con una mano scendeva e mi palpava il sedere e dopo cinque minuti buoni di silenzio bollente, in cui si sentivano solo i nostri respiri caldi e il movimento delle sue mani che si strusciavano sul tessuto della mia camicia sbottonata e della canotta che portavo di sotto, mi fece girare e mi appoggiò il suo coso gonfio e duro nel solco che divideva le natiche, con grande trasporto, prendendomi per i fianchi e facendomi fare avanti e indietro, lentamente, come se stessimo scopando.

Mi lasciò senza fiato, muta, e di nuovo il silenzio rese bollente quell'ambiente umido, maleodorante, mentre il suo respiro si faceva sempre più pesante dietro la mia nuca e io non riuscivo a impedirmi di ansimare e gemere, sotto le contrazioni dell'eccitazione. Mugolavo in maniera appena percettibile, ma date le distanze sempre più ravvicinate lui sentiva tutto, avvertiva tutto, si fondeva sempre di più con la mia carne e anch'io provavo la strana sensazione di chi vuol prendere la carne dell'altro dentro il proprio corpo.

– E ora dimmi se ti ha fatto più caldo o più freddo – disse quando smise di pomiciarmi, mettendomi una mano tra le cosce e trovandomi preda di un'erezione che stavolta, stando in piedi, non ero riuscita a nascondere.
Stavolta fu lui che mi diede un bacio ed ebbi la sensazione che se non mi fossi scostata mi avrebbe centrato le labbra.
Poi Pino si stese su uno dei materassi dei letti del rifugio e mi disse di sedermi accanto a lui.

Il cuore cominciò a galopparmi nel petto.
– L'altra sera ho tastato la Giulia. Siete quasi allo stesso livello. Per le tette, intendo.
La Giulia aveva vent'anni ed era piatta come poche al mondo. La cosa mi ingelosì doppiamente: perché lui era stato con lei (anche se era un gran bugiardo e non era certo che dicesse la verità) e perché mi paragonava a una senza seno.
– Quasi allo stesso livello nel senso che sono meglio io o meglio lei?
Che domanda del cazzo.

Era un altro autogol, ma me ne resi conto solo dopo.
– Vieni qua che te lo dico.
Mi ritrassi, ma ricominciò a palparmele.
– Ti piace?
Non lo potevo negare: mi piaceva. Ma rimasi zitta zitta.
– Se non vuoi non te le tocco più.
Non parlai, non sapendo cosa rispondere. Lui capì il segnale.
– Ti piace, ti piace. Ti si drizza il cosino.
Mi vedeva incapace di un qualsiasi movimento.

Quando mise una mano sotto il sedere indovinò con le dita i contorni del tanga da femmina porca.
– Oh, ma sei proprio un bel finocchietto! Un finocchietto di montagna.
E cominciò a ridere, mentre io ero incapace di articolare un solo movimento che fosse uno.
– Ora lo vai a raccontare a tutto il paese. Come per la Giulia.
Mi guardò stranito.
– E perché dovrei? Spogliati, signorina.

Ero in uno stato di tremenda, incontenibile soggezione.
– No, dai.
Mi sfilò la camicia, sollevò la canotta scoprendomi la pancia e l'ombelico e io lo lasciai fare. Iniziò a toccarmi, era la prima volta che lo faceva direttamente sulla carne nuda e ansiosa, mi baciò le spalle e mi si appiccicò alla schiena, mettendomi entrambe le mani sul petto nudo e gonfio. Avevo i capezzoli impazziti. Le sue dita erano freddissime, ma io ero calda, caldissima.

– Senti come me l'hai fatto gonfiare? E ora come la mettiamo?
Mi prese la mano, con un tocco ruvido e rozzo, e mi rimase come calamitata su quel pezzo di ferro di carne. Lo aveva veramente grosso e duro.
Sovrappose la sua mano alla mia, mi dettò il movimento e il ritmo, cominciai a fare su e giù, accarezzandoglielo sotto i pantaloni. Poi mi lasciò libera di proseguire da sola e riprese a titillarmi, baciandomi ancora le scapole nude, poi le tette, succhiandomi i capezzoli turgidi e la base del collo.

– No, baci no. Per favore.
– Sei una suina. Sei meglio della Giulia.
La cosa mi inorgoglì e il mio pistolino, fino a quel momento timido per la situazione scabrosa, si liberò e si indurì. Lui ci mise un attimo a palparlo e a capire.
– Maialetta eccitata.
Sentii lo zip della lampo, poi i suoi bermuda che scivolavano verso il basso. Ero come ipnotizzata. Nel silenzio bollente di quella stanza, quasi senza girarmi, armeggiai con gli slip e glielo tirai fuori.

– Brava, brava, troietta.
Cominciai a masturbarlo. Non c'era trasporto, non c'era gioia. Doveva succedere, prima o poi, ma me l'ero aspettato del tutto diverso. Pensavo ad altro, cercavo di distrarmi mentre glielo facevo. Lo aveva veramente grosso.
Lo sentivo mugolare, reclinato com'era all'indietro.
– Zoccola. Sudicia zoccola.
Lo guardavo con la coda dell'occhio. La cappella era turgida, nuda, odorava di sesso e di maschio.
– Che puttana.

Ti piace. Vieni qua!
Mi prese per i capelli, mi tirò verso il basso. Ebbi paura di prenderglielo in bocca, cercai di fermarlo.
– No, questo no, per favore.
– Zitta, vacca.
Spalancai le labbra qualche istante prima che venisse. Mi soffocò, quasi, di sperma, costringendomi a ingoiarglielo quasi tutto. Succhiai per non soffocarmi e non vomitare. Dopo avere goduto nella mia gola mi trattenne per il collo e mi lasciò con la testa poggiata sulla sua pancia pelosa.

Alla fine mi prese per la coda di cavallo, mi tirò via e per farmi asciugare mi diede un fazzolettino già usato da lui.
– Baldracca. Tutte quelle come te, che avete l'aria così pulita e profumata, siete le meglio troie. Lo sai che la Giulia usa il tuo stesso profumo?
A quel punto mi aveva veramente rotto. Mi tolsi scarpe e calze, gli mostrai orgogliosa lo smalto sulle unghia dei piedi.
– E usa il mio stesso smalto? Lo sai che ti sei fatto fare un pompino da un ragazzo con le dita smaltate?
Tirai giù gli shorts.

Il tanga era inequivocabilmente rosa, ma sotto la stoffa traforata il mio clitoride maschile era evidente. Glielo mostrai, mi si era mezzo ammosciato ma si vedeva bene, anche nella penombra.
– Vai con i ragazzi. Se io sono finocchietto di montagna, tu sei omosessuale di paese.
Rimase interdetto, contrariato.
– Bada a come parli: ti metti a fare l'intellettuale con me?
– No, ma tu mi vuoi umiliare e allora vattene affanculo.

Io mi sento, io sono donna. Don-na! Capito? E tu sei solo un piccolo stronzo di paese, che si voleva scopare il ragazzino con la coda di cavallo che pare una femminuccia. Ma tu ti volevi fare il maschio che c'è in me.
Mi guardava senza capire, completamente stralunato.
– Insomma, se c'è un finocchio, fra me e te, non sono io. Lo lasciai frastornato. Mi rimisi la canotta, poi la camicia e uscii.

Alla luce del giorno mi resi conto che la canotta era bagnata. Umida del suo seme, come il mio viso e gli angoli della mia bocca.
E la cosa, anche se lui era un rozzo bastardo, mi intrigava tantissimo.

Keine Kommentare vorhanden


Deine E-Mail-Adresse wird nicht veröffentlicht. Erforderliche Felder sind markiert *

*
*

(c) 2023 sexracconto.com