L’angelo di Ferragosto

Annus Mirabilis

La rivoluzione sessuale, iniziò
(forse un po’ tardi per me)
nel ‘novecentosessantatre:
quando il romanzo di Lady Chatterley
uscì dalla clausura
e il primo LP dei Beatles
passò la censura!

Fino a quell'anno
il piacere non era godimento
ma una specie di patto per l'anello,
una promessa di fidanzamento.
Il pudore mi prese a sedici anni
e contagiò per tanto la mia vita.

Poi si risolse ogni tenzone
e appianammo la situazione,
ogni vita riprese valore
ognuno era importante, finalmente.

Tutti vincemmo,
non si perdeva più niente.

La gente era felice, ecco perchè
fu stupendo il ‘novecentosessantatre
(forse un po' tardi ma lo fu anche per me)
quando il romanzo di Lady Chatterley
uscì dalla clausura
e il primo LP dei Beatles
passò la censura!

(Libera traduzione da: Annus mirabilis di Philip Larkin, by Giovanna)

Prologo

Avevo trovato l’utile e il dilettevole ed ero grata al destino che mi aveva concesso quel colpo di fortuna.

Insomma, quell’estate avevo vinto uno “stage” presso un importante albergo della capitale, una notizia capitata all’improvviso, tra capo e collo, e proprio non avrei saputo come risolvere la questione dell’alloggio. Per fortuna, ne parlai al telefono con mia madre dalla stanza che condividevo, a Milano, con Monica la mia collega alla IULM.
Monica era di origine calabrese e, una volta capita la mia esigenza, esternò tutto il suo entusiasmo, poi mi raccomandò di aspettare l’indomani perché, forse, aveva una risposta ai mio problema.

E fu proprio così: Monica, che da quel giorno divenne la mia “Fata Madrina”, con un tocco di -bacchetta magica, fece di me una ragazza fortunata.
A Roma, ai Parioli, ci viveva la sua vecchia nonna con il figlio, scapolone e zio della mia amica. Ora il caso volle che lo zio di Monica volesse da tempo fare un viaggio in America, per andare a trovare i cugini che non vedeva da anni.

Quale occasione migliore? La nonna non avrebbe mai accettato in caso una badante, era una tipa all’antica, ma sarebbe stata felice di ospitare me, la migliore amica della sua nipotina preferita!
Insomma, il puzzle si ricompose e il lunedì successivo ero a Roma, in una bellissima casa padronale, a poche fermate di bus dall’Hotel Cavour, dove avrei lavorato per le prossime quindici settimane.
La nonna di Monica era una signora anziana, non brutta, di un’età indefinita che di certo superava i settanta.

Adesso, l’età doveva averla un po’ piegata ma da giovane doveva essere stata alta, bruna e fiera, come le donne del suo paese.
Era bruna e, probabilmente, dava ai capelli una botta di tintura, il viso aveva poche rughe e una bella pelle, che sembrava sempre abbronzata.
Gli occhi verdi aggiungevano un tocco di dolcezza al suo sguardo saggio e a volte melanconico.
Era molto riservata e fu un’ospite impeccabile. In quei pochi giorni mi affezionai talmente a lei, ne fui talmente conquistata che, alla fine, le chiesi se potevo chiamarla zia.

Lei finse di pensarci su un momento e poi acconsentì allegra:
– Certo, zia sì ma non nonna! Non come quella maleducata di Monica che si ostina a pensare che sono una vecchia! – ridemmo insieme pensando a Monica, anche lei impegnata, da qualche parte nel mondo, a tentare di costruirsi un futuro decente.
Due cose mi sono rimaste impresse della signora Stefania: la sua cucina eccellente e il racconto che mi fece una sera, sorprendendomi talmente che, ancora adesso, mi riesce difficile immaginare come, la vecchia nonnina, si fosse potuta “dar da fare” in maniera talmente spregiudicata, da meritarsi l’appellativo di “angelo del Ferragosto”.

1

Ora ti racconto un fatto che ormai appartiene al mio “passato remoto”, un po’ per il piacere di farlo, perchè voi giovani credete sempre che tutto il mondo lo avete inventato voi! Non è così, figlia mia, come dice la Bibbia: non c’è nulla di nuovo sotto il sole. E voglio parlartene anche per una forma di piccola vendetta personale nei confronti di mio marito che, ormai, è all’altro mondo a sbrigarsela da solo.

Non l’ho mai raccontato e ora, con te ne ho l’occasione… raccontare è importante, perchè, altrimenti, qualsiasi cosa è come se non fosse mai successa.

Mio marito era un affermato professionista calabrese; un bell’uomo di buona famiglia e, a modo suo, bravo padre e (secondo la mentalità disgustosa e antiquata che ci circondava) anche buon marito.
Il mio “bravo” marito però non sapeva che uno dei suoi amici di gioventù era gay, a quei tempi, in un paesino della Sila, quello era un argomento taboo.

Amedeo mi era molto affezionato sin da ragazzo. Mi confidava tutto e mi avvertiva anche quando “il maritino” stava per combinare qualche marachella.
Grazie alle sue soffiate, all’inizio del matrimonio, riuscii a beccarlo mentre si stava organizzando qualche avventura con la puttanella di turno.
In linea di massima lo perdonavo, anche perchè in Sila fare i separati in casa a vent’anni, per una donna… è dura.
Per il turismo è sempre stata una zona meravigliosa: Camigliatello, Spezzano, San Giovanni in Fiore ma nei lunghi inverni, soprattutto allora che andare sulla neve era per pochi, c’era solo solitudine e silenzio.

Poi, dopo un periodo di quiete, me l’ha fatta veramente sporca e da allora siamo stati in sostanza divisi, per quasi dieci anni.
Praticamente mi ero scordata persino come si fa, all’amore.
Si ragazza mia, anche io sono stata bella, desiderata e… e tutto il resto.
Comunque, il mio congiunto (approfittando del fatto che ero impegnata e addolorata per un male di mio padre, culminato con una difficile operazione) si scopava la babysitter, una ragazzotta di paese, appena maggiorenne.

Difficile immaginarla come donna, con le sue calze pesanti e i guanciotti arrossati dalla vita naturale; difficile immaginarla interessante, per un uomo come lui. Un professionista affermato che, volendo, avrebbe potuto permettersi veramente di meglio ma non finisce qui.
Tornata da Torino, stanca, distrutta, al paese trovai lui nero e lei disperata.
La ragazza mi raccontò che un giovane l’aveva messa incinta e adesso non poteva dirlo a casa, altrimenti il padre l’avrebbe uccisa.

Ne parlai con mio marito ma lui, che in quel periodo la detestava, disse che era solo una “zoccola”, niente a che vedere con una“santa” donna come me.
E così, “la santa”, che era una donna adulta ma abbastanza ingenua, ebbe pena della ragazza.
Mi feci carico del suo guaio ben conoscendo la mentalità retrograda di quei piccoli centri di montagna. Alla fine, grazie alle mie amicizie e sacrificandomi personalmente (ed economicamente) riuscimmo a farla abortire pur di non negarle un futuro, altrimenti la giovane sarebbe stata segnata a vita.

Pochi giorni dopo il fattaccio, mi accorsi che tutti erano ritornati felici e contenti, compreso mio marito, che aveva per me mille attenzioni.
Qualche mese più tardi gli comunicai che Teresa, la ragazza, a casa non serviva più: che fare?
Lui prese la palla al balzo e disse:
– Sai che possiamo fare? Adesso che con i miei soci abbiamo aperto lo studio più grande, la posso far assumere da noi, tanto lei il diploma se l’è già preso! –
Soluzione perfetta pensai: ormai avevo preso a cuore la situazione della “povera pastorella indifesa”.

Dopo un anno però, il mondo mi crollò addosso!
Amedeo, il nostro amico gay, litigò di brutto con mio marito e per togliersi la pietra dalla scarpa, mi fece una telefonata di fuoco.
– Guarda io non avevo avuto il coraggio di dirtelo – affermò – perché tu sei una brava donna e non volevo farti più male di quanto già ne hai ricevuto, ma ti avverto: guardati intorno perché, come diciamo noi, ti hanno messo in mezzo!
Ricordati solo questo, tuo marito è un vero porco! –
Come un velo di nebbia che si dirada, dinanzi a me la verità venne a galla.

Feci un po’ d’indagini discrete e scoprii, un po’ alla volta, il nido di vespe su cui ero stata seduta, senza accorgermi di nulla.
Morale della favola: mio marito aveva sedotto la ragazza, nonostante avesse venticinque anni di più; quando avevo seguito mio padre a Torino, se l’erano spassata talmente che l’aveva messa incinta e, dulcis in fundo, io stessa, ignara di tutto, l’avevo aiutata per liberarsi del bambino: cosa che mi ripugnava, dal punto di vista morale e religioso.

Adesso che lei lavorava al suo studio, erano veri e propri amanti e se la godevano come due piccioncini.
Chissà quante grasse risate si erano fatti alle mie spalle. Che stupida ero stata.
Piantai un enorme casino, li minacciai di brutto e la storia finì.
Passai poi un lungo, brutto, periodo chiusa in casa a piangere e a soffrire, ripensando a ciò che avevo vissuto.
I rapporti con mio marito erano sempre tesi e abbiamo dormito divisi per anni.

Anche lui prese una brutta botta. Finita la storia malefica con quella ragazza, che lo aveva fatto sentire un “giovanotto” e che, tra l’altro, gli aveva spillato un sacco di quattrini, si era ritrovato, solo e malvisto.
Il paese è piccolo, la gente parla e la sua tresca era diventata di dominio pubblico.
Avevo undici anni meno di lui e, nonostante tutto, ero una donna molto apprezzata.
Avevo un corpo e ben proporzionato.

La vita sana e l’aria buona mi avevano donato un fisico tonico e formoso.
Le gravidanze mi avevano riempito e fatta più donna: vestivo in maniera classica, mai volgare, e portavo sempre la gonna. Allora che le ragazze andavano in giro in Jeans sformati e di pessimo gusto, le mie gambe nervose, trattenute dalle calze di seta nere, e le scarpe eleganti attraevano gli sguardi vogliosi, persino quelli dei più giovani.
Poi, un bel giorno, arrivò la telefonata che mi cambiò la vita.

Era padre Fulvio, un prete che si occupava di volontariato nel mondo dei disabili, lo avevo conosciuto a Torino, nell’ospedale. Era tutto contento perché mi doveva fare una bella sorpresa: padre Fulvio era in Calabria, a Siderno Marina.
C’ero stata un paio di volte, c’era un mare stupendo e un panorama mozzafiato.
L’associazione di padre Fulvio organizzava ogni anno delle settimane di colonia, per i giovani con difficoltà.
Mi pregò di scuotermi dal mio torpore e di andarlo a trovare per passare una giornata diversa.

Volli spezzare la catena e uscire finalmente dalle mie quattro mura, così pochi giorni dopo, accompagnata da una mia amica, raggiunsi Siderno e passammo veramente una bella giornata.
Nel salutarci, il prete mi fece una proposta: perché non rendermi utile agli altri facendo del volontariato?
Insomma, mi chiese di occuparmi per le due settimane successive, aiutando i ragazzi del prossimo turno.

2

Non risposi subito di sì, nonostante tutto sono sempre una donna all’antica e volevo parlarne con mio marito.

Lui si mostrò entusiasta, non sopportava più tanta tensione e sperava che, rompendo la routine, qualcosa sarebbe cambiato anche tra noi due.
Così, nel mese di Agosto, partii con il mio borsone, come una studentessa alle prime armi. Portai perfino il costume da bagno… era tanto che non andavo al mare, chissà magari trovavo anche il tempo per fare un tuffo.
Avevo avuto anche un maschietto, così mi feci coraggio e non ebbi nessuna remora a trattare con quei giovani, purtroppo disagiati a causa di varie patologie.

Da loro imparai che l’allegria e la gioia di vivere si può trovare anche con poco, imparai ad apprezzare le piccole cose, che sono sempre le più belle.
Di giorno li aiutavo insieme alle altre “sorelle”, ci chiamavano così, come fossimo monache.
Collaboravo anche a lavarli, li accompagnavo a fare i bisogni, controllavo che tutto fosse in efficienza per non procurare loro ulteriore disagio.
Di sera poi, dopo cena, si parlava a lungo, specialmente con i più grandi e capii che la cosa che più gli mancava, era il sesso.

Scoprii che molti si eccitavano continuamente e si arrangiavano come potevano.
Ce n’era uno, Samuele, un ragazzo di ventisei anni, che appena lo toccavo si eccitava. Lavargli le parti intime non era facile, perchè il suo pisello, diventava gigantesco e duro e non sapevo come piegarglielo nella vasca del bidet.
La situazione, dopo il primo imbarazzo, divenne comica e ogni volta ci facevamo un sacco di risate.
In me però, nasceva anche una certa eccitazione, perchè erano anni che non facevo niente; quelle risate servivano anche a esorcizzare il mio turbamento.

Una mattina mentre andavo a fa la spesa con Colomba, una donna della mia età ma esperta di volontariato, portai la discussione sull’argomento: come si comportavano loro con i ragazzi maschi, quando questi si eccitavano?
– Beh, cara mia, ognuna si comporta come sente, non esiste una regola… sono giovani e, nonostante tutto, molti hanno le loro pulsioni: arrapano come chiunque, lo sai no?– e mi lanciò uno sguardo d’intesa.
– Con un po’ di discrezione, se te la senti, puoi fare come fanno tante altre… potresti dargli una mano.

– Esitai per un poco, poi capii:
– Ah, una mano… una mano nel vero senso della parola? – e con le dita mimai il gesto di chi tira una sega a un maschio.
Colomba rise di gusto: – Brava, hai capito al volo! –

3

Due giorni dopo, a Ferragosto, organizzammo la brace sulla spiaggia, portammo una chitarra e cenammo tutti in allegria.
Più tardi, la maggior parte tornò alla pensione, mentre alcuni dei giovani più grandi insistettero per restare almeno per quella notte, sull’arenile.

Mi offrii di far loro da assistente e mi lasciarono il vecchio pulmino Volkswagen per ritirarci a nostro piacimento.
Anche Samuele volle rimanere. Eravamo in quattro: due ragazzi, una ragazza ed io.
Chiacchierammo, giocammo e alla fine si doveva pagare pegno: io persi indecorosamente.
Era tardi e sulla spiaggia non c’era quasi nessuno… lontano qualche altro falò si spegneva, mentre i nottambuli se ne andavano via.

Il buio e l’allegria si resero complici delle nostre parole, il pegno divenne sfida; la sfida divenne tenzone, poi fu un continuo duello di… “e tu? e io; e te la senti, e non te la senti…” eccetera eccetera.

Insomma alla fine io ero la pesante signora borghese, che si finge emancipata, perchè è di moda negli anni sessanta… ma che non avrebbe saputo uscirsene dai luoghi comuni.
Incapace di trasgredire… incapace di godersela in libertà e schiava dei suoi taboo!
Così, il mio pegno prese una piega inaspettata: dovevo avere il coraggio di toccare il membro di Samuele davanti agli altri due.
Per stemperare l’atmosfera, mentre arrossivo nell’oscurità, dissi:
– E che ci vuole: è una settimana che glielo tocco… – e risi – Caccialo fuori, su, vediamolo questo pisellino! – lo presi anche in giro.

– No! – intervenne la ragazza – Devi farlo tu… deve fare tutto da sola, giusto? – disse, cercando la complicità dei suoi amici.
Accettai e mi spostai lentamente verso la sedia di tela su cui stava seduto il ragazzo.
D’un tratto si fece silenzio e tutti si divennero attenti ai miei gesti.
Con gli occhi bassi e col cuore che batteva all’impazzata, m’inginocchiai davanti a Samuele e iniziai delicatamente ad armeggiare con i bottoni del pantaloncino.

Il suo cazzo, da sotto, gonfiava la patta tendendo la stoffa sottile. Lo sentivo sotto le dita.
Piano piano lo liberai e adesso il suo affare svettava, duro come la pietra.
Nel buio sembrava una grossa melanzana. Lo sfiorai con la punta delle dita:
– Ecco, toccato. Avete visto, no? – dissi, fingendo di aver terminato il mio compito anche se ero certa che la cosa non sarebbe finita li.
Nonostante il fresco della notte estiva, dentro di me bruciavo e anche gli altri ragazzi erano evidentemente eccitati.

– E questo lo chiami toccare? – disse la ragazza infilando la mano sotto il costume del giovane accanto a lei:
– Glielo devi prendere tutto in mano, così! – e anche se non si vedeva bene, si capiva che aveva raggiunto il cazzo del ragazzo e lo stringeva forte, agitandolo a destra e a sinistra, come un manico di scopa.
– Se per te va bene…? – dissi, interrogando Samuele con lo sguardo.

Nei suoi occhi leggevo la febbre del piacere: lui non aspettava altro.
Non mi trattenni più… adesso ero un’altra donna. Tra le gambe sentivo un fuoco, un desiderio che non avevo mai provato.
L’eccitazione, troppo a lungo sopita, mi dava la carica e non pensai più a nulla.
Il mondo intorno scomparve: ora desideravo solo sentire quel pene turgido e liscio riempirmi le mani, desideravo solo donare piacere col mio corpo a quel giovane che impazziva di desiderio.

Impugnai saldamente il membro, era caldo, duro, eretto verso l’alto.
Di sotto, poggiava sullo scroto, gonfio e pieno, morbido come pasta per pizza appena lievitata.
Toccai tutto, carezzai tutto, volevo impadronirmi di quelle sensazioni e gustarmi quel cazzo completamente estraneo; erano anni che trattenevo i miei desideri, avevo conosciuto quasi solo il membro di mio marito, in fondo.
Sapevo masturbare l’uomo, l’avevo imparato da ragazza: ormai che c’ero era inutile fermarsi.

Mi misi di fianco, chinata su Samuele e iniziai a farglielo delicatamente in mano.
Anche la ragazza, stava masturbando il suo amico, lo faceva con più rabbia, più veloce, mentre si concedeva un ditalino pure lei.
La sua mano era nel costume e andava dentro e fuori col dito, ritmicamente.
Nessuno aveva più grande interesse per gli altri, ognuno era perso in se stesso alla ricerca di un piacere fin troppo negato.

– Sublime, sublime… – diceva Samuele, irrigidendosi sulla poltroncina.
Io gli tenevo una mano sulla spalla e l’altra saliva e scendeva, in modo cadenzato, sulla sua asta che superava in altezza l’ombelico.
Andavo svelta in su e poi di nuovo in giù ma con attenzione, aveva ancora la pelle chiusa sul pene e non volevo fargli male. Stavo ben attenta a far sgusciare solo parzialmente il grosso glande, rosso e lucido come un frutto maturo.

– Baciamelo! – mi ordinò senza controllarsi, io rimasi interdetta. Era una pratica che non avevo mai approfondito troppo con mio marito. Lui me lo aveva chiesto più volte oppure ci aveva provato ma io lo avevo accontentato poco e male: temevo il suo giudizio… dopo il piacere. Di sicuro avrebbe pensato che, sua moglie, faceva cose da puttana. E a cosa aveva portato tanto sacrificio? A nulla!
Persi ogni ritegno e ogni rispetto per quell’uomo che mi aveva fatto tanto male: ora toccava a me godere.

Decisi di far felice il povero ragazzo; fu facile, dovetti solo abbassarmi di poco e mi ritrovai la testa del suo cazzo a pochi millimetri dalle labbra.
Masturbandolo, il glande mi batteva sulla bocca, tirai fuori la lingua e lo assaggiai.
Al contatto con quella dolce sfericità sentii una gioia elettrica attraversarmi tutta la schiena e poi esplodere alla base della nuca: adesso lo volevo e così lo presi, succhiandolo dentro.

Mi abbassai lentamente, determinata a prenderlo completamente fino in gola.
Mi sentii invasa, riempita, Samuele godendosi quel pompino fece il pene ancora più gonfio.
Per vari minuti nemmeno lo toccai con la mani, facevo tutto con la bocca, volevo conoscerlo bene.
Prima lo ingoiai diverse volte, senza fretta, mentre, dall’ugola, producevo tantissima saliva e gli gocciolavo addosso dalla bocca ma non m’importava.
Anche i suoni gutturali di quel lavoro di bocca erano osceni e arrapanti; accovacciata, aprii le gambe e tastandomi la figa la trovai fradicia di liquido trasparente.

Bellissimo.
Mi lasciai andare senza pensare a niente, volevo solo il cazzo, in quegli istanti.
Farlo per il solo gusto di provare e dare piacere, senza alcuna implicazione sentimentale né amore, fu una scoperta incredibile.
Mi sentivo una porca, credevo di aver passato il limite, di essere diventata una depravata e, invece di mortificarmi, questa sensazione m’inebriava: mi sentivo forte, diversa.
A trent’anni passati compresi che il sesso non s’impara: basta liberare la nostra naturale libidine per capire tutto e subito.

Capii che il trionfo di quel gioco era il piacere e che sarebbe stato sancito dallo spruzzo di Samuele.
Il ragazzo aveva brividi continui e gli vibravano le mascelle per la goduria.
Non volli esagerare facendolo trattenere troppo. Spontaneamente glielo presi in mano e lo masturbai alacremente, mentre con le labbra non perdevo il contatto col suo cazzo, mai.
Ci volle poco.
A quella velocità, la sega risultò molto efficace e quando lui s’inarcò, in un fascio di nervi tesi, lo sperma passò rapidamente dal pene alla mia lingua.

Spontaneamente, alle prime gocce di sborra calda, stavo per sgusciare all’indietro, come avevo sempre fatto con mio marito… ma Samuele mi trattenne per la nuca.
Decisi di andare fino in fondo, quella volta: accettai tutta la sborrata di Samuele!
La mia bocca si riempiva come se ci spruzzasse dentro della panna spray.
Il ragazzo venne continuamente per quasi due minuti.
Mi riempì completamente e, anche se non avrei voluto, fui costretta a ingoiare una buona dose di sperma.

Il resto lo sputai sulla rena un attimo dopo aver finito.
Sedetti sulla sabbia sconvolta, non ero venuta ma avevo provato un piacere immenso, sconosciuto, intimo.
L’altra coppia, sdraiati su un telo, stava scopando come meglio poteva.
Samuele guardava il mare nero, un po’ impacciato ma felice.
Mi prese la mano e restammo così a lungo, ebbi la sensazione che mi volesse ringraziare.
Il giorno dopo arrivò anche padre Fulvio e con lui mi confessai.

Mi diede l’assoluzione molto volentieri e senza troppi pregiudizi.
Iniziai così la mia “carriera” di angioletto nelle comunità e, per vari anni, ho dedicato al volontariato almeno due settimane della mia estate.
Faccio bene il mio lavoro, m’impegno con tutta me stessa, specialmente di notte anzi, la notte direi che tanto angioletto non lo sono… i ragazzi lo sanno, mi cercano apposta, soprattutto la notte di Ferragosto.

Con mio marito le cose andarono meglio… lui non lo sapeva ma avevamo pareggiato i conti da tempo.

Delle sue porcate non m’importava più niente… ero troppo impegnata a organizzare le mie.
Non mi sento in colpa: tutto ciò che ho fatto, l’ho fatto a fin di bene.

FINE.

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