Dialogo di una donna sola

Sorrido mio caro, lei non mi vede ma sto sorridendo, se penso che cerco soltanto l’amore, l’ardore che spegne, che brucia quest’insoddisfazione perenne che mi travolge ogni volta che rimango da sola e mi porta in fondo ad ogni vicolo stretto dove non posso fuggire, dove all’imbrunire un fascio di luna punta la luce dalle parti del seno.
Alle volte mi domando quanto può ancora andare avanti, quanto mio marito tenga ancora lento questo guinzaglio.

Chissà se immagina quanto di giorno mi sfogo, su quale ghiaia genufletto le gambe, sotto quale pioggia mi metto a carponi infangando il cognome che porta, questa casa e sua madre che ogni sera mi chiama.
Mi parla del tempo che fa male alle ossa, senza sapere che sua nuora passa i giorni per strada carpendo ogni minimo segno per tradire suo figlio, per sentirlo pieno di corna nella bocca di altri, nelle parole avide che ripetono il gusto di farsi una moglie.

Lei parla ed io l’ascolto, ma mi verrebbe da dirle che i miei vestiti sono sempre di seta, che comunque anche puttana mi sento signora, che il più delle volte porto un cappello che mi copre la fronte e due labbra che ad ogni sguardo socchiudo perché sia chiaro che l’amore che chiedo ha già in cambio una culla, il posto più caldo dove accovacciarsi per fare le fusa.
Mio caro, anche questa giornata non è passata per nulla, questi seni che lei non conosce hanno dato il meglio che l’anima chiede.

Erano belli quanto un ramo di pesco in germoglio, quanto un’adolescente che s’atteggia a signora. Nudi sotto una nuvola sparsa aspettavano il vapore di una bocca qualunque, il fremito d’una mano che tocca per il tempo che non è mai abbastanza
Sapesse mio caro! Quanto al solo ricordo la voglia mi fa scoppiare le gambe, confusa nel desiderio scomposto che s'aggira dalle parti del cuore. Ma poi m’accorgo che non è cuore, non è anima, ma solo banale sesso di donna, che pulsa e che freme dentro ordinarie mutande di stoffa.

Ho quarant’anni e m’illudo di non dimostrarli, ma poi sfacciata mostro questo seno che balla, che pende, che mi spoglia di quella finta malizia costruita a fatica davanti allo specchio. Mostro i miei seni come se fossero labbra, come se fossero gambe! Invece sono palle sensuali che sporgono attratte da quest’infinito bisogno d’essere oggetto, desiderio evidente nelle patte rigonfie. Le giuro, non conosco altro modo per essere femmina, quando m’accorgo che non stanno nella pelle, quando mi seguono discreti e gentili per poi diventare cafoni e volgari tra le mie mani che si fingono esperte, tra le mie gambe che s’aprono appena.

Non cerco un amante, un rozzo signore che mi punti dritto nel sesso, che mi puntelli in un angolo per il gusto di farmi piacere. Nei miei deliri cerco un uomo che abbia il coraggio di soffiarmi in bocca senza permesso, che imbrogli le mie labbra d’essere parte del mondo e le illuda che un sesso alla volta è solo un timore borghese, un anoressico sogno d’una mogliettina in attesa nel letto.
Cerco un uomo che abbondi saliva nei baci che offre, al punto di non credere che siano atti d’amore e mi faccia fino in fondo pensare che se fossero sputi sarebbero graditi lo stesso.

Non ho bisogno d’essere riempita di carne, d’essere gonfiata d’aria addosso ad un muro, mentre l’uomo di turno mi chiude e mi schiude questa conchiglia che ha bisogno d’ossigeno.
Cerco un uomo che mi riduca obbediente, che oltre a scoparmi sappia farmi sentire il potere arrivando qui dentro, nel punto preciso dove ogni fica diventa un’essenza, dove ogni donna sia certa d’avere l’anima in mezzo alle gambe.
Le giuro! Non sono questi buchi in superficie che addobbo e coloro, perché un uomo ne trovi più facilmente la strada! Non sono questi vestiti che eccentrici danno l’idea che me ne intenda di cazzo, come se conoscessi a memoria ogni dettaglio che vibra, che invece senza sapere mi procura soltanto un vuoto mai sazio.

E’ qualcosa che vive dentro il mio ventre, tra queste budella che si comprimono ogni volta, quando un uomo riesce ad arrivare dalle parti del mio concetto, a sfiorare l’idea perché mi faccio scopare. Perché in amore c’è differenza ed io ne voglio sentire più di quanto il mio corpo non dica, più di quanto il suo corpo s’affanna, perché l’amore non è altro che un grido, una banale illusione che chiamano orgasmo, un sapore d’incompiuto che lascia roca la voce e placa ogni desiderio.

Mio caro, mi rendo conto quanto le mie parole possano essere vane, possano risultare insipide al cospetto di chi non ha mai creduto che l’amore fosse altro. Ma io sono ancora lì in attesa, dentro un vicolo cieco e cammino, lungo il bordo di una pallida luna, sotto una pioggia fitta di foglie che si posa leggera sul mio cappello, che all’imbrunire mi fa più bionda di qualsiasi tinta appena rifatta. Mi chiedo quanta femmina c’è sotto questi capelli e quanta ancora ne potrei ostentare al mondo, a questi uccelli notturni che mi girano attorno e mi fanno sentire più preda di qualsiasi insetto che li possa sfamare.

Tolgo il reggiseno e intravedo dentro una specchietto d’una macchina parcheggiata il mio profilo abbondante. Mi ricorda quello di mia sorella rigoglioso ed in attesa, seno di donna matura, seno di zitella. Davanti allo specchio aspettava due mani, le sole che mai vennero a toccarlo, mai a sentirne defluire il pulsare di una donna promessa, il calore intenso che a stento freddava, al cospetto del suo riflesso ubriaco d’amore, ubriaco di voglie rimasto a stagnare nel punto preciso dove erano nate, nella parte di femmina dove non arrivano mani, dove non arrivano sessi.

La spiavo tra la luce del buio mentre testarda si procurava piacere, rubava minuti alla cena mentre la sua tetta schiacciata diventava doppia e più grande contro lo specchio. Ed era un fibrillar di dita, di respiri, di vetri appannati mentre curiosa trattenevo in gola i miei fiati acerbi. La guardavo e rimanevo in attesa, come se da un momento all’altro dovesse scoppiare, urlare al mondo la gioia cercata dentro sé stessa. Mi pareva un rito, una liturgia per chieder perdono ad un cielo che io pregavo soltanto.

Per anni l’ho pensata devota, ho creduto davvero che il suo seno fosse un mezzo per arrivare ad un Dio, la parte più tenera da sacrificare alla supplica. La vedevo invasata, in balia d’un movimento che non chiamavo piacere, d’un fascio di luna che si posava come maschio tra la schiena e le gambe. Posseduta si lasciava andare come se davvero il suo uomo fosse tornato a riempire il suo ventre, a spalancare quel mondo arido sino alle viscere.

Chiedeva amore scoprendo il suo seno, stringendolo a forza fino a procurarsi dolore. Lo stesso che ora sento, lo stesso che riesco a capire mentre in attesa mi faccio del male, violenza e perdono dentro un vicolo cieco a mostrare una tetta, una qualunque che mi faccia provare vergogna ed attiri uno sguardo che incredulo ringrazi il destino, per essere passato per caso proprio dove una donna cerca l’amore scoprendo una tetta.

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