come una belva

Aprì gli occhi in una bolla di quiete e di silenzio. Lo scompartimento era vuoto, il finestrino aperto ma non entrava un filo d’aria: solo il rumore cupo delle cicale, come se migliaia di insetti si fossero dati appuntamento nella sterpaglia intorno alla ferrovia.
“Il treno è fermo – disse Lisa, affacciandosi dal corridoio – Dicono che c’è un principio di incendio più avanti, e non si sa quando ripartiremo”.
“Dove siamo?” chiese Ada, la voce ancora impastata dal sonno.

“Non lo so. Subito dopo una stazioncina, non so quale”.
Ada si alzò, guardò fuori. Era un tratto assolutamente anonimo di campagna. Cespugli rinsecchiti dal sole, muri a secco, qualche alberello contorto. Doveva mancare almeno un’ora alla stazione Termini. Forse due. Ada pensò vagamente che la giornata ormai era persa; non sarebbe riuscita a raggiungere l’archivio del Tribunale in tempo per le ricerche che doveva fare. Niente di tragico, comunque, pensò. Si era presa due giorni per quel lavoro, aveva disdetto tutti gli appuntamenti.

Era completamente libera. Provò la sensazione adolescenziale di essere in vacanza.
“Non ci muoveremo più” disse, sporgendosi dal finestrino spalancato. In lontananza, dietro una macchia verde, c’era il mare, una striscia azzurra velata dal muro opaco di calore che saliva dalla terra. “E qua dentro si soffoca. Che dici, ce ne andiamo in spiaggia?”.
Lisa la fissò sorpresa. Era praticante presso lo studio di un collega, nella stessa cittadina di pianura dove lavorava Ada.

Dieci anni più giovane di lei, non avevano mai avuto grosse occasioni per frequentarsi; a parte le cene di lavoro. Anche oggi, viaggiavano insieme solo per caso. Perché si erano ritrovate alla stessa ora sullo stesso binario, entrambe dirette a Roma.
“E se parte il treno? chiese”.
“Se c’è una stazione vicina prenderemo il treno successivo – rispose Ada afferrando la sua borsa di pelle nera.

Lisa prese a sua volta il bagaglio e la seguì nel corridoio, dove incrociarono due ragazzi che stavano passando.

Giovani entrambi, vicini ai vent’anni; uno era biondo, portava jeans e una camicia gialla aperta sul petto. L’altro era completamente rasato. Correvano lungo il corridoio, chiacchierando a voce alta tra loro, e il ragazzo biondo si scontrò violentemente con Ada.
“Fa attenzione!”.
“Scusate bellezze, dove state andando?”. Ada lo squadrò severa. “Non rompere, ok?”.
Lui alzò le spalle. Quando le due donne furono passate si voltarono insieme a guardarle. Quella mora, la più anziana, era anche più alta: magra, la camicetta bianca che faceva intravedere un fisico asciutto, con seni piccoli ma sodi, i pantaloni bordeaux che fasciavano gambe muscolose e un bel culo a mandolino.

L’altra, biondina, portava un vestito color sabbia che le scendeva fino ai polpacci; era più bassa, ma più femminile della sua amica, con seni ben evidenziati anche sotto il vestito largo.
I due ragazzi si scambiarono un’occhiata.
Le videro proseguire fino alla fine della carrozza; sentirono che aprivano lo sportello e scendevano. La più giovane disse: “Che facciamo?”.
Ada alzò le spalle. “Tanto vale andare fino al mare” disse.
Seguirono un viottolo polveroso che tagliava i cespugli dritto di fronte a loro.

Dopo un paio di profondi avvallamenti sabbiosi dove cresceva una vegetazione mista, il sentiero si aprì in una lunghissima spiaggia bianca, completamente vuota. Rari gabbiani volavano bassi sull’acqua.
“Un posto strano” mormorò Lisa, togliendosi le scarpe e affondando i piedi nella sabbia rovente.
“Sì” Ada girò lo sguardo intorno. Lungo tutta la spiaggia, a intervalli irregolari, sorgevano costruzioni che doveva risalire all’ultima guerra; bunker circolari, spianate di calcestruzzo, e – ancora più curiosi – muri di cemento armato che si ergevano isolati.

Su uno di questi, una parete di almeno tre metri per dieci, era disegnata la gigantesca figura di un a****le.
“E quello cos’è?” chiese Ada. “Sembra una tigre. O un leone”.
Di un giallo impossibile, il manto striato di lunghe macchie rossa, la bestie si alzava sulle zampe posteriori; come una creatura araldica, dominava la spiaggia, luminosa e arcaica.
“In ogni caso è un maschio” osservò Lisa, con un sorriso.
Ada centrò lo sguardo sul ventre della bestia, verso la grossa protuberanza che emergeva rigogliosa e indifferente.

Lanciò un’occhiata a Lisa, che stava girata verso il mare.
“Già. E ha pure un bell’affare, no?”.

Ridendo, posarono le borse su un cordolo alla base del muro.
Ada sedette lì, la faccia rivolta al sole. Si sentiva sciogliere, pezzo per pezzo. L’aria era un fluido denso, secco, immobile. Cominciò a tormentare i bottini della camicetta, uno dopo l’altro, fino a che non si aprivano; solo quando sentì un alito di brezza sulla pelle sudata si accorse che l’aveva sbottonata quasi interamente.

“Ci facciamo un bagno?” disse Lisa che era ancora in piedi, accanto a

lei.

“Nude?”.
“Siamo sole, no?”.
Ada si voltò da una parte e dall’altra: la distesa abbagliante di sabbia

sembrava assolutamente vuota.
Lisa afferrò l’orlo del vestito e lo sfilò facendolo passare dalla testa. Slacciò il reggiseno rimase col perizoma bianco; quindi buttò gli indumenti sul cordolo alla base del muro.
“Allora? Andiamo o no?”.

Con uno ‘zip’ Ada abbassò la cerniera dei pantaloni, li sfilò stando ben attenta a evitare la sabbia quindi li piegò e li ripose nella borsa. Tolse anche la camicia e il reggiseno; quando gli ebbe ripiegati, colse un’occhiata dell’altra ragazza e ricambiò lo sguardo. Lisa aveva seni pesanti, fianchi un po’ grossi. Ada, invece, un fisico asciutto sul quale risaltavano ossa, muscoli e vene. Insieme ai seni piccoli e al viso duro, contribuiva non poco a darle un aspetto quasi mascolino; nonostante ciò, era giudicata una bella donna, e lo sapeva.

“Al tre in mare, ok?” disse Lisa. “Uno…”
“…due…” Sfilarono insieme le mutandine e si lanciarono correndo sulla spiaggia.
“…tre…” gridarono, lanciandosi in acqua.

Si distesero gocciolanti sulla sabbia calda, ai piedi del muro.
Lisa, stesa sulla schiena, vedeva quella figura enorme incombere su di lei. Che razza di a****le era? Lanciato con le zampe in alto, sextenato, furioso. E il colore…quale a****le ha il manto di un giallo così violento, accecante?
E’ una bestia solare, pensò, fatta d’oro e di luce, metallo rovente, fuoco…
Si alzò e girò attorno al muro.

Scese giù, nell’avvallamento sabbioso retrostante la spiaggia. Lì l’aria era perfino più calda, e il silenzio totale. Si avvicinò al fronte irregolare dei cespugli; piante alte non più di un metro, un metro e mezzo, che racchiudevano ampie radure di sabbia, piccoli giardini di cardi ed erbaspada. Impigliata tra i rovi, la pagina strappata di

una rivista pornografica si muoveva ad ogni irregolare bava di vento. Vide un groviglio di corpi maschili nudi, bianchi e neri, un coacervo di gambe, braccia, teste che formavano un unico impossibile corpo dotato di decine di bocche, peni e ani…
Si accoccolò davanti ai cespugli e orinò sulla sabbia.

Mentre stava per rialzarsi, le sembrò di vedere lo scintillio di due occhi tra la vegetazione, uno sfondo rosa tra il verde cupo del fogliame.
Ada era ancora distesa sullo stomaco, immobile. Si sdraiò al suo fianco, a un palmo da lei.
“Mi sono addormentata” disse, girando la testa verso Lisa – Ho fatto anche un sogno…strano…”.
“Che sogno?”.
“Stavo…” si schiarì la voce ” Stavo correndo in mezzo a un bosco di alberi radi, sotto il sole di mezzogiorno.

Correvo senza sapere dove andavo, per fuggire da qualcosa che mi veniva dietro, sempre più veloce, a grandi balzi, sentivo un rumore pesante alle mie spalle… dei tonfi, vicini, sempre più vicini, ormai erano quasi addosso a me”.
Lisa si inumidì le labbra, nell’attimo di silenzio che seguì. “Era…”.
Fece un cenno con la testa, verso l’alto. “Era quella bestia..?”.
“Credo di sì. Sì…Non mi sono voltata, avevo troppa paura, ma credo fosse proprio quella creatura…”.

“Eri spaventata?”.
“Da morire. Stava per saltarmi addosso. E non era una bella prospettiva”. Alzò gli occhi verso al grande figura sopra di loro. “Soprattutto considerato quello che ha in mezzo alle gambe” concluse con una mezza risata.
“Ah! Quindi l’a****le voleva fare sesso con te…”.
“Fare sesso! Sei sempre così raffinata…. Quella bestia mi avrebbe pure sodomizzata, se le capitavo sotto”.
Lisa scoppiò a ridere. “E allora? Non dirmi che sei anche tu una di quelle che considerano inviolabile il loro posteriore?”.

“Non mi sono mai fatta inculare se è questo che vuoi dire – rispose Ada seria – Lo trovo ripugnante. E’ una forma di sottomissione intollerabile”.
“Però quel sogno indica che in fondo in fondo lo vorresti. E’ che sei troppo orgogliosa, sai? Anche arrogante a volte, con la tua aria di donna affermata, che vuole controllare tutto. A volte bisogna lasciarsi andare, no?”.
“E’ che questo posto non mi piace – disse Ada improvvisamente – Penso che abbiamo sbagliato a fermarci”.

Lisa le diede un pizzicotto sulle cosce. “Sempre in tensione eh? In tensione e con le chiappe strette!”

Ada si rovesciò sulla schiena, di shitto. Aprì la bocca per dire qualcosa ma si bloccò.
“Ho visto qualcuno, sulla cima del muro” disse, alzandosi in piedi.
Raccolse la camicia e la indossò, allacciando in fretta alcuni bottoni. “Chi?” sospirò Lisa, mentre si infilava il vestito.

“Non so, non sono riuscita a distinguere bene…”.
Lisa aggirò il muro e guardò di sotto, nell’avvallamento sabbioso, tra i cespugli.
“Qui non c’è nessuno” disse.
“Erano seduti là sopra, ci stavano spiando!”.
Lisa alzò le spalle e cominciò a scendere lungo il pendio sabbioso. “Dove stai andando? Ehi! Dove vai?”.
Arrivata davanti alla barriera verde si voltò. “Voglio vedere se davvero c’è qualcuno, oppure no”. Scostò i rami, si chinò.

Il foglio con la foto pornografica continuava a sbattere ad ogni minimo cenno di vento. Si insinuò in un passaggio tra le fronde.
“Lisa? Aspetta, Lisa!”.
Dietro si apriva uno spiazzo di rena e terra battuta, con due sedie a sdraio sgangherate disposte al centro. Per terra, pagine di giornali, una maglietta rossa strappata. Seguì una specie di sentiero che si faceva strada tra i ciuffi d’erba secca, e qualche densa macchia di arbusti.

Ogni singola radura sembrava essere occupata, saltuariamente ma con una certa costanza. Oggetti abbandonati sulla spiaggia era stati trasportati fin lì come pezzi di un arredamento clownesco; sedili d’automobile messi in cerchio, grossi avvolgicavi di legno usati come tavolini, bancali e fogli di plastici stesi per terra. Sembrava un parodia della vita quotidiana, una forma di esistenza sordida e miserabile quanto più era totalmente esposta alla luce del sole, senza alcuna ombra che la rendesse più tollerabile.

Il vestito era ormai fradicio. Sia asciugò il sudore dalla fronte e proseguì lungo il sentiero
Su un palo di legno che reggeva una rudimentale recinzione di stuoie di canne, stava inchiodato un calendario di molti anni prima; ogni mese, l’immagine a colori di una ragazza nuda. Sulla pagina di luglio era ritratta una donna bionda, distesa su uno scoglio, le gambe aperte, che fissava con aria sognante l’obiettivo. Su quella foto, qualcuno aveva scarabocchiato con una specie di evidenziatore.

Avvicinandosi, Lisa si accorse che lo scarabocchio era in realtà un rudimentale disegno: un a****le che sovrastava la ragazza e la possedeva. Sollevò la pagina. Agosto: un’altra modella, una diversa posizione, la stessa ombra luminosa, oscena. Settembre, ottobre. Sfogliò in fretta tutto il calendario.

Guardò dietro di sé. Era convinta che l’amica la stesse seguendo, ma forse lei aveva preferito rimanere in spiaggia.
“Ada!”.
Sentì un rumore dietro le stuoie.

Girò dall’altra parte. Due ragazzi erano lì, seduti in costume da bagno su logore stuoie intrecciate. Ricordò di averli visti sul treno, camminare lungo il corridoio.
“Ciao” “Ciao”.
La squadrarono dal basso in alto. Uno dei due, biondo, stava rollando una canna. L’accese, diede un lungo tiro e la passò all’amico.
“Fumi?”.
Lisa scosse la testa. “Eravate voi, prima, a spiarci da sopra il muro?”. “No” fece quello rasato “non ci siamo mossi da qui”.

Aveva uno
sguardo così limpido che diventava perfino imbarazzante contraddirlo. “Scusate, allora. Non è che avete dell’acqua?”.
Il biondo infilò il braccio in una profonda buca nella sabbia e tirò fuori una bottiglia di birra che aprì con un coltellino. “Abbiamo solo questa”.
“Grazie”. Lisa si accorse di avere davvero sete; prese la bottiglia e diede una sorsata. La schiuma traboccò fuori, i ragazzi scoppiarono a ridere.
“Fumi?” chiese di nuovo il ragazzo rasato.

Lisa, per non essere scortese, diede un tiro; tossì, inghiottì un’altra sorsata di birra.
“Perché non ti siedi un po’?”.

La seconda bottiglia rotolò, rovesciando sulla sabbia l’ultimo goccio di birra.
“Devo tornare dalla mi amica adesso” disse Lisa. Cominciava a sentire la leggerezza dell’alcool farsi strada nel suo organismo. I ragazzi erano militari di leva, tornavano a casa per una licenza. Uno che conoscevano gli aveva parlato di quella spiaggia.

C’erano stati già un paio di volte. Quale disegno? Non ci avevano fatto caso. Avrebbero dormito in spiaggia forse. Ma di notte, dissero, qui non c’è granché da fare.
“Che amica? Quella grande…. che è scesa con te?”. “Sì?”.
“E’ sempre così schizzata?” chiese il ragazzo biondo. “Ma no, è simpatica…”.
“Macchè. Tu sì che sei simpatica” disse il ragazzo rasato, sfiorandole come per caso la coscia. “E carina”. Le mani del ragazzo rasato scivolarono sui seni di lei.

I due ragazzi si scambiarono un’occhiata. “E’ troppo orgogliosa” disse il biondo, ridacchiando.

Il ragazzo rasato le stava sollevando il vestito, adesso. Lei lo trattenne, ributtò giù la stoffa, ma alla fine la sua mano le scivolò tra le gambe.
“Eravate voi, sul muro, a guardarci?”
Il biondo fece una smorfia. “E allora? Noi a guardare, voi a farvi guardare…E a chiacchierare”. Si alzò, spazzolandosi la sabbia dalle gambe.

“Vado a cercare la tua amica”.
Il ragazzo avvicinò la testa, le appiccicò le labbra contro le labbra. Sentì la sua lingua premerle sulla barriera dei denti, forzarla; si ritrovò in bocca la consistenza aspra della sua carne. Per un attimo chiuse gli occhi. La figura luminosa dell’a****le raffigurato nel disegno sul muro le infiammava la retina; non era il ricordo dell’immagine. Era una sorta di negativo giallorosso che bruciava dentro i suoi occhi chiusi.

La Bestia, le zampe levate in aria, la testa piegata in avanti, il membro eretto.
La bestia dello stesso calore del sole, fosforescente, che giace su ogni modelle del calendario, dodici donne che si danno al mostro, squarciate dal suo rovente fallo d’oro…
Spinse il braccio in avanti, allargò il palmo della mano sulla stoffa dello slip; si spostò appena appena, verso il centro, e subito sentì una tumescenza pulsante, che cresceva sotto di lei.

Con le dita cercò la punta, le strinse, l’avvolse.
Lui emise un piccolo ghigno di trionfo e cercò di spingerle giù la testa.

Ada sedette sul cordolo di cemento grezzo, le spalle contro il muro. Prese la borsa e tirò fuori il resto dei vestiti come se volesse indossarli. Invece li posò ripiegati sulle ginocchia e si strinse la camicetta bianca al petto.
“Ormai, è inutile starci a rimuginare sopra, no?” mormorò Lisa, sedendosi accanto a lei.

Fece per abbracciarla ma Ada si ritrasse.
“Perché sei andata là? Perché ci sei andata?!” gridò. Lisa alzò le spalle. “E tu? Perché mi hai seguita?”.
Aveva aspettato a lungo, dopo che aveva visto Lisa scomparire tra la vegetazione. Alla fine, si era spinta a cercarla. La luce ormai era bassa. Tra gli arbusti, sedili di automobile, un rifugio costruito con lamiere di plastica e copertoni di autocarro, … era andata avanti, attraverso giardini di relitti e di cardi secchi, fino a una recinzione di stuoie di canna.

Aveva guardato in un pertugio. Lisa e un ragazzo erano stesi per terra; lei teneva la testa affondata tra le sue gambe. A quel punto si era girata e aveva visto un ragazzo biondo in piedi vicino a lei. Ciao Ada, le aveva detto.

“Ti stavo cercando. Eri sparita”.
“Bè non dovevi venire se non ne avevi voglia”
Tu chi sei? Il ragazzo biondo aveva sorriso: ci siamo conosciuti in treno non ricordi? Ada era rimasta ferma, a guardarlo venire avanti, preceduto dall’odore di cocco della crema solare, la pelle scura di sole, il ciuffo di capelli che gli cadeva sulla fronte.

Si era fermato di fronte a lei. Aveva fatto per toccarla ma lei lo aveva bloccato. Lui le aveva allontanato la mano e aperto la camicia sul petto. Lo sapevo che ci saremo rivisti, le aveva detto. Tu no?
“Non credevo che sarebbe finita così…” disse Ada a bassa voce. Lisa le lanciò un’occhiata. “No, nemmeno io”.
L’aveva spinta giù, le ginocchia sulla sabbia, il torso spinto in avanti. Si era appoggiata sulle palme delle mani; la stuoia di fronte a lei, logora e sdrucita in più punti.

La faccia del ragazzo rasato era a meno di un metro: stringeva la testa di Lisa, la spingeva con un gesto monotono, quasi stanco. Quando si era accorto di lei, l’aveva fissata, ammiccandole. Dietro, il ragazzo biondo le stava sondando la vagina con l’indice e il medio; il pollice le entrò nell’ano. Smettila! Ma lui aveva continuato a scavare dentro di lei, come se il suo corpo non fosse stato altro che la sua tana.

“Non riesco a sopportarlo…” mormorò
Lisa esalò un sospiro. “Tanto vale farsene una ragione”.
Ada scoppiò in una risata stridula. “Una ragione! Falla finita! Credi che non ti abbia vista…? Ti divertivi a succhiarglielo? Ti piaceva proprio, eh?
Lisa le piantò gli occhi addosso. “Anch’io ti ho vista, cara, mentre te lo metteva in culo”.
Afferrata alle sue cosce, Lisa lo stava esplorando con la punta della lingua. Era prossimo a venire.

L’aveva sorpresa quando aveva smesso di spingerle la testa e anzi, le aveva solleva il mento in su. Guarda, aveva detto, accennando al divisorio di canne, guarda…. Lisa aveva alzato la testa, allungandosi verso uno strappo nella stuoia. Al di là, c’era Ada carponi sulla sabbia, e il ragazzo biondo inginocchiato dietro, una mano premuta sulla schiena di lei. E’ tutto perfettamente visibile, scolpito nella luce: come ogni altra cosa, qui, aveva pensato. Aveva visto la saliva luccicare sulla punta delle sue dita quando si era sputato sulla mano per inumidirle l’ano e quando aveva ripetuto il gesto, un attimo dopo, sulla punta del pene eretto.

Subito dopo, aveva spinto per entrarle dentro, e lei- cacciato un piccolo grido soffocato – si era divincolata, girandosi. No, ti prego, non ce la faccio…aveva mormorato. Gli aveva stretto l’uccello tra le mani e aveva cominciato a masturbarlo. Quindi si era chinata in avanti, e l’aveva accolto in bocca, senza smettere di manovrarlo.

Da, adesso girati! L’aveva afferrata per le spalle, sollevata, la ributtata in ginocchio. Le aveva stretto i seni da dietro e poi spinto con forza.

Ada si era morsa le labbra, lui aveva ansimato. I due corpi avevano iniziato a sussultare, scivolando uno addosso all’altro con una regolarità meccanica e insieme imprecisa, come un’animazione grafica piuttosto scadente.
Ada sì voltò verso il mare, ma Lisa le afferrò al testa con tutt’e due le mani e la costrinse a guardarla in faccia. “Te la sei proprio cercata, mia cara. Davvero non l’hai capito? Qui non puoi giocare. Guarda qua sopra, questo disegno.

Chi l’ha fatto? Chi è questo a****le? Perché ci entra nei sogni? Lui è…”.
Cercò una parola, una parola che lo definisse, ma si accorse che le parole erano tutte uscite da lei, come granelli di sabbia da una mano. Le balzò in mente un’immagine dall’alto, un paesaggio di dune e di onde lente, bianco, calcinato, e subito quel paesaggio divenne un corpo sudato preso in uno spasmo di sesso, lei stessa o Ada, o una modella anonima che posa per un’immagine pornografica.

E’….

Ada si allontanò, camminando lungo il muro.
Chi è questo a****le? Chi l’ha fatto? Perché ci entra nei sogni?
Correva, una massa furiosa dietro di lei, Spezzava rami, rovesciava pietre, sollevava una nuvola di polvere. Un balzo dopo l’altro. Ricordò soltanto adesso che alla fine del sogno, proprio un attimo prima di svegliarsi, ebbe l’impulso di girarsi per vedere la Bestia.
Perché non l’aveva fatto? Perché non aveva voluto vederla?
Arretrò di qualche passo.

La luce del tramonto aveva trasformato il giallo acceso in un colore più caldo, vicino alle sfumature cromatiche di un metallo incandescente. La forma sembrava una grande struttura metallica sul punto di fondersi.
E allora si accorse di un particolare che le era sfuggito, qualche ora prima. La Bestia non era un maschio. Aveva un cazzo, certo, ma più sopra, poco al di sotto delle zampe anteriori, aveva anche mammelle gonfie e nella zona genitale, forse, perfino l’accenno di una vagina.

LA Bestia è ermafrodito, pensò.
Si voltò per chiamare Lisa e si accorse che era intenta a vestirsi.
Che stupida! Crede che sia finita, mentre tutto sta per cominciare adesso, si disse Ada, che afferrò i due lembi della camicia e li strappò, facendo piovere bottoni sulla sabbia. Piantò i piedi per terra, nuda, di fronte alla bestia incandescente.
Io sono tua, signora della luce, padrone del giorno. Vieni tra noi ombre, e incendia la nostra esistenza.

Di ciò che accadde in seguito, non è conservata memoria.
Nessun strumento di registrazione, né videocamera, né macchina fotografica, né magnetofono era in funzione in un raggio di chilometri.
Quattro persone erano presenti, e avrebbero potuto testimoniare.
Due, entrambe sui vent’anni, di sesso maschile, erano sedute in un circolo di sabbia, stavano bevendo birra. Videro un lampo di luce provenire da dietro i cespugli, in direzione della spiaggia.

Il sole stava tramontando e pensarono al riflesso di una superficie lucida. Poco dopo sentirono un rumore dietro le stuoie, una forma in movimento. Il ragazzo rasato si alzò barcollando e aggirò la recinzione. Là dietro, acquattata sulla sabbia color oro, c’era un a****le di sogno, una grande tigre di luce dalle linee sinuose, di una bellezza indicibile. Il ragazzo spalancò la bocca. La bestia si alzò con un unico movimento fluido, di un’eleganza maestosa.

Gli era impossibile allontanare gli occhi. Non aveva mai visto niente di simile.
shittò, balzò in aria, atterrò il ragazzo e gli scarnificò braccia e gambe con pochi colpi d’artiglio. Le urla vennero soffocate dai rigurgiti di vomito. Il ragazzo biondo arrivò correndo, guardò le chiazze sulla sabbia e la figura luminosa che grondava sangue. La bestia sollevò appena la testa; poi tornò a chinarsi sul ragazzo rasato e gli fece scivolare più volte la lingua sulla faccia, strappandogli via pezzi di pelle e cuoio capelluto fino a ridurlo a una specie di teschio sanguinante che sputava urla inarticolate.

A quel punto si rialzò e avanzò quietamente verso il biondo, che si buttò tra i
cespugli in una fuga cieca e disperata.
La bestia lo lasciò allontanare prima di scagliarsi dietro di lui. In pochi balzi lo raggiunse nei pressi di un basso pino rinsecchito, e gli piantò gli artigli sulla schiena. Il ragazzo crollò a terra urlando. La bestia si adagiò su di lui. Aveva il ventre caldo come brace, lo slip si fusa ben prima che la pelle dell’a****le fosse a contatto con il suo corpo.

La pelle brucò, lasciando esposta la carne viva. Il membro della bestia si protese a penetrarlo, lentamente. Era un lungo palo infuocato che squarcia le viscere.
Sulla spiaggia, davanti al disco rosso del sole al tramonto, Ada sorrideva.
Lisa corse via. Non poteva credere a ciò che aveva visto, i colori sul muro che prendevano forma, una creatura di luce che balzava fuori… Rotolò nell’avvallamento, non sentì spine, né rami, non percepì niente fino a che non si trovò davanti a un corpo dilaniato, impalato su un tronco di pino.

Doveva essere ancora vivo, perché ebbe un fremito e un ciuffo di capelli biondi intrisi di sangue gli ricadde sugli occhi.
In quell’attimo Lisa riprese coscienza, quando si accorse della bestia davanti a lei. La fissò, in un istante di assoluta lucidità: bella sopra ogni

cosa, non sembrava neppure completamente reale. Ma non aveva dubbi che, come i desideri e i sogni, potesse piantarsi nella carne e far sanguinare fin nel profondo.

Allargò le braccia e mi mosse verso tutta quella luce.
Restava un unico testimone, che osservava il tramonto.
Quando il sole scomparve, avvertì qualche brivido di freddo. Si rivestì, raccolse la borsa di pelle nera e si incamminò sul sentiero e poi lungo i binari della ferrovia. C’era ancora un po’ di luce quando arrivò alla stazione in tempo per salire sul regionale delle 21. 13. Era segnalato un principio di incendio nella boscaglia in prossimità del mare.

Il giorno dopo, si seppe che erano stati trovati tre cadaveri carbonizzati, due uomini e una donna, che non vennero mai identificati.

Ada vive sola, ora, in una casa di campagna. Di giorno spesso è nervosa, ma quando viene sera si tranquillizza, nella sua grande casa circondata dalle ombre del bosco.
A chi le chiede se non abbia paura, la notte, a stare da sola risponde, ridendo, che non c’è d’aver paura del buio.

Il buio protegge, è un rifugio, ti ci puoi nascondere nell’oscurità: non come la luce del giorno, che sa essere così spietata, che ti mette a nudo e brucia come una tigre di fuoco.

MIO… PER SEMPRE!

Disteso. Dormi placido, nella luce azzurrina che, dalle fessure della tapparella, filtra in questa alcova, nella tua camera, inondandola dolcemente.

Che splendida questa atmosfera… così tremendamente irreale, così densa di sogno, eppure così tremendamente palpitante. L’aria è immobile, solo a tratti pare respirare, contrarsi e dilatarsi, per soffiare con delicatezza l’odore rosso bruno di sesso, passione… della tua pelle bagnata di me. L’aria qui dentro è viva, respira nel sonno di questa calma notte, proprio come te… distesa a riposare dopo ore di passione, foga… dopo ore di te, di me, di nient’altro. Dalla mensola, proprio davanti al letto, indelicati, ci spiano gli occhi vitrei, immobili di quella tua dannata vecchia bambola.

L’hai chiamata Emilie, proprio così, senza la Y. Dicevi che quel nome, alla francese, era quello più indicato. Da piccolo l’amavi quella bambola: adoravi quel pezzo di stoffa, eri folle per quel viso di gomma plasticata, per quegli occhi di vetro, quei capelli di nylon lavorato. Non ti ho mai chiesto da dove fosse arrivata, chi te l’avesse donata… ma di una cosa sono assolutamente sicura: muoio dalla gelosia per quella cosa di stoffa, gomma ed ovatta.

La odio. La ucciderei. Di lei non mi hai mai parlato, me ne accorgo solo adesso, ma so, lo sento, che in una parte nascosta, forse sopita, del tuo cuore e della tua anima, a quella cosaccia di stoffa sei ancora tremendamente legato. La odio… basta questo per odiare? Si, certo… basta eccome! Non potrei mai digerire di doverti dividere con qualcuno. O qualcosa!
E’ un flash, uno solo… breve ma intenso, descrittivo, penetrante.

Hai più o meno sei anni. Sei seduto docile sul pavimento della tua cameretta, proprio qui per terra, accanto al letto, dalla parte dove ora sono distesa io, di fianco, mentre ti guardo dormire profondamente. Mi giro sull’altro fianco e posso quasi toccare l’immagine che, di te, quella visione mi regala. Hai le gambe incrociate, come all’asilo, quando ti dicevano di sederti all’ indiana. Tutt’attorno, sparse, giacciono le tue automobiline di ferro e

plastica, rovesciate, confuse: inutili pedine di una strage automobilistica, di un maxitamponamento sull’autostrada del tuo pavimento.

D’un tratto sposti gli occhi dalla scena d’apocalisse, di lamiere che si accartocciano, sirene che urlano disperate, grida d’agonia e rumore di cesoie idrauliche. E’ il canto d’una sirena a richiamarti… silenzioso, flebile, eppur tremendamente maleducato nell’entrarti in testa senza permesso, senza nessuna intenzione d’uscire. E’ lei, la dannata Emilie che gorgheggia dalla mensola dove si sente troppo sola. I tuoi occhi, scuri di pozzo profondo, iniziano a cercare i suoi, si fissano nel riflesso di quelle biglie di vetro.

Il tuo respiro si fa veloce, il cuore impazzito. Nella bocca qualcosa ha rinsecchito la lingua, l’interno delle gote, le gengive. Lì sotto il tuo sesso piccolo, delicato, s’arrossa, si gonfia. Tu sai cosa significa. Tu sai che è lei che lo vuole. Tu sai di non potere, di non volere, di non saper dire di no. Ti alzi con un movimento scomposto, come se l’equilibrio fosse malfermo, ed in pochi passi spacchi la stanza, dal letto alle mensole, lungo la parete opposta.

Una volta che l’hai ben stretta tra le mani, in un abbraccio goffo, inesperto, a passi larghi, frettolosi ma sempre discreti ti avvicini alla porta. Spingi il battente all’esterno, sul corridoio, per dare solo un’occhiata, essere sicuro che nessuno ti disturberà per i prossimi minuti. Nessun fiato, nessun rumore… nulla! Richiudi la porta e sei steso sul letto dopo poco. Strofini quel bozzo oblungo, duro, coperto dai pantaloncini del pigiamino, contro il gonfiore liscio che Emilie ha sotto la gonna a fiori.

E’ solo un caldo che cresce, è solo un senso strano di frenesia… è solo un po’ la testa che gira. Non mi vedi, non leggi l’odio che mi galoppa su e giù per il corpo, puledro impazzito. Sei mio e non posso accettare che, anche solo per un momento, tu sia stato suo. Non è come le mille ragazzine vuote, fotocopiate, che ti ronzano attorno, che non mi fanno né caldo, né freddo… con Emilie è diverso.

L’intimità del momento mi distrugge. Sto male e grido, ti grido basta, ti urlo smettila, fermati… ti grido che t’odio quando pensi a lei, quando la tocchi, l’abbracci, la possiedi così. Non c’è risposta. Non me l’aspetto… non puoi sentirmi.
Non mi hai mai parlato di lei… ma so che quello che ho visto è vero, dev’essere vero. Ricordo quando quei giochi riempivano la mia, di fantasia, le mie di giornate, dipingendo d’una tinta proibita, incomprensibile le mie ore.

E’ come se lì con te, bambino, nella mia visione ci fossi anch’io, con quella gonna orrenda, anche la mia a fiori, quegli occhi strabici, dietro gli occhiali tondi, infantili, di plastica rossa. Sono anch’io lì, con quel mio modo assurdo, scomposto di camminare… come una paperetta che ancheggia dondolando su gambe tozze, rigide. Ci sono anch’io lì, con la mia barbie con la b minuscola, quella delle bancarelle da festa del paese, nella confezione piatta di cartone grigio, con la plastica dura e anatomica

ad avvolgerla.

Sei lì sul letto che non mi guardi mentre faccio sgobbare la barbie, sguattera senza nome, con il suo vestito sporco, lacero, nella cucina di plastica giallo fluorescente. Sei lì sul letto a sfregarti Emilie contro i pantaloni, troppo occupato a leggere ogni tua sensazione per vedermi. Ci sono anch’io, però, lì, con la servetta senza nome, barbie delle bancarelle… mentre, facendolo balzellare a saltelli brevi, nella mia mano destra che sale e scende, scartando a sinistra, porto in scena un omaccione muscoloso, con un paio di slip neri soltanto indosso.

Ecco Big Jim, quello vero, dritto dallo scaffale del negozio… ecco Big Jim, rubato solo per questi piccoli fuori programma dal cesto di giochi di mio fratello più piccolo. Ti sfreghi il bozzo ancora più forte, Emilie ridotta quasi a pialla per quel puntello di frassino che non vuol saperne di piegarsi. Sfreghi con più vigore, per vedere come ci si sente, che effetto fa, mentre Big Jim, ubriaco, di ritorno dal bar, ha da ridire con la barbie sguattera per la cena preparata.

E’ un pugno, uno solo, violento, al centro del viso. E’ un pugno solo, alla maniera di papà con mamma. Barbie, col naso pendulo, sanguinante, si piega in terra, si inginocchia: “No, no ti prego, anche stasera no… perdonami”… è solo un sussurro disperato, che sa di moccio e sangue, del salato delle lacrime calde, mentre finiscono in bocca sporche, quando si piange disperati, col naso rotto, coscienti che, tanto, non servirà a nulla.

Big Jim la spinge contro il tavolo, la sbatte con tutto il tronco sui piatti, sulla minestra, come se il suo vestitino non fosse già abbastanza sporco. Big Jim le tira su il vestito, le mette la gonna sulla testa e le tira giù le mutande, come se il vestitino non fosse già abbastanza strappato. Proprio come papà. La prende rude, violento. Non le interessa che urli, strepiti, che lo implori… anzi. E’ proprio come il mio papà Big Jim, che sbatte violentemente il suo bacino contro quello di mamma, strappandole urla ad ogni colpo, mirando alto, in quello che dopo ho capito essere l’altro buchetto che a voi maschietti tanto piace.

Big Jim ha nei miei giochi le gambe sporche di sangue, sulle cosce dure, da muratore… barbie piange lacrime rosse che scivolano sui polpacci. Big Jim è sporco di sangue, come ora vorrei lo fossi tu, in questo quadretto che sa d’un afrore insopportabile, come vorrei che fossi tu mentre continui a strusciarti quel pezzo di stoffa sui calzoncini, mentre tieni ad Emilie la gambe assurdamente divaricate, strette per le caviglie tra le tue manine voraci.

Vorrei che i tuoi calzoncini, lì, si sporcassero di sangue, di quello di Emilie… vittima d’una emorragia copiosa, stroncata, mentre lì, come una donnaccia di quart’ordine si dimena sul tuo bozzetto. Emilie, come quella barbie, come la mamma, se lo merita. Sgualdrine!
Non succede nulla.
Il flash, così com’era arrivato, così come s’era arricchito, svanisce nel silenzio, in quella mia scrollata di testa, con gli occhi chiusi, stretti, che

faccio per cacciarlo via.

No, questa luce azzurrina non la si può sporcare con i giochi zozzerelli, coi ricordi neri d’un gioco d’infanzia.
Sei ancora lì. Il tuo volto è disteso, in penombra, mentre lo sterno, incassato debolmente al centro del tuo petto scuro, va su e giù debole, al ritmo del tuo respiro. Il lenzuolo, ormai anch’esso azzurrino, solo un punto più scuro delle pareti, ti copre discreto il sesso e la gamba destra, avvolgendo quel pezzo di te tra le sue pieghe.

Quanto sei dolce, così addormentato. I capelli, sudati, sulla fronte che solo ora s’è asciugata al vento fresco che filtra da fuori, si sono solo un po’ arricciati sulla fronte, in piccoli tirabaci scomposti. Te ne darei uno, cento, mille per ognuno di quei graziosi ricetti che ti incorniciano. Te ne darei milioni… ma dovrai giurarmi che sono sola, con te… che esisto solo io. Te ne darei miliardi, miliardi e di più… ma Emilie dovrebbe morire, morire stanotte stesso, assieme alla tua promessa.

Il sesso mi si gonfia, le labbra, quelle grandi, si allargano… lasciano venir fuori quelle più piccole, intime, nascoste… la mia “signorina segreta” si erge altezzosa, prima ballerina d’un debutto mondiale. Mi sento impazzire, sento la saldatura delle mie cosce che pulsa di sangue, piena… ho lì sotto un altro cuore, o è solo una sensibile cassa di risonanza per quello che ho nel petto? Non lo so, adesso non mi interessa capirlo, saperlo… voglio solo vivere con tutta la passione che serve questo momento, assaporare questo muovo quadro che mi esplode sul viso, qui su questo letto… e che mi fa eccitare così forte.

E’ assieme a questa immagine che mi sono d’un tratto accesa, lì sotto… e adesso voglio viverla tutta, finché vorrò.
M’hai detto sì, me lo hai sussurrato nell’orecchio, senza ascoltare neppure quello che volevo dirti. L’hai detto così, d’istinto… perché “al Cuor non si comanda”. Ti sei alzato, hai tirato a te il lenzuolo che ci copriva, lasciando me nuda e avvolgendo le tue gambe, il tuo bacino. Simpatico, improbabile pudico che sei! Ti perdono tutto, ora.

Ti perdonerei tutto, ogni cosa, adesso che prendi quella sgualdrina dal collo, strappandola alla mensola dov’era seduta. Ti perdonerei ogni cosa, ti perdono d’avermi lasciata qui nuda, nella luce azzurrina di questa stanza… ma mai, ascoltami bene, mai potrei perdonarti se non avessi il coraggio d’andare fino in fondo. Mai ti perdonerei se adesso tu non facessi quanto ti ho chiesto di fare… se adesso tu, col sangue di quella stronzetta a lordarti le mani, non mi giurassi eterno, esclusivo amore.

E tu lo sai. Lo hai letto nei miei occhi. Non c’è bisogno d’aggiungere altro! Sembra quasi che anche tu senta quell’odore forte, di passione, quell’odore che sa di umido, che si fa afrore ogni passo in più che muovi per raggiungermi su questo letto. Solo al pensare a quel sangue che presto lorderà le federe del letto dove, poi,

frenetici, ci lasceremo andare, spudorati come mai, senti che ancor più prepotente si fa il bussare lì sotto, tra le mie cosce.

Sembra quasi che tu possa vedere tutto il mio pube che s’infiamma come ferro fuso, si surriscalda, sfrigola chiaro in questa riposante penombra, mentre fai qualche passo indietro, senza togliermi gli occhi di dosso, per prendere il taglierino che hai sulla scrivania. Godo. Godo come una matta nel vedere gli occhi di quella palla di stracci che strabuzzano, mentre le stringi la gola nell’incavo angusto tra indice e pollice. Mi eccita quello sguardo consapevole, quegli occhi mi mandano in estasi mentre leggono le ultime, violente, feroci righe della vostra storia.

Bravo Amore mio, bravissimo. Ogni passo che ti separa dal letto dove sgozzeremo assieme quella vacchetta è un passo che ci separa da te dentro di me, adorabile, furioso come mai, che spingi, premi, ansimi sulla mia pelle sudata. Eccoti, dolce cuore mio. Sei in ginocchio sul letto, proprio di fronte a me. Il lenzuolo è ormai appallottolato ai piedi della scrivania… il tuo sesso dritto, gonfio, dialoga telepatico con la mia Lei.

Ha fame di me, come io non ho altro desiderio se non quello di divorarlo dentro la mia carne.
Spingi quella pezza vecchia sul letto, pancia in su. Ti adoro quando sei così diretto, così ferale… vuoi che guardi, vero? Vuoi che assapori quel momento frazione per frazione vero? Ti amo! Mi guardi sorridendo, con gli occhi che parlano. Senza fretta, senza fretta Amore mio. E’ lì distesa. Si dimena sotto di noi, piccola, incapace di difendersi… e noi lì pronti, a gustarci il suo dolore, le sue lacrime, le smorfie, per la prima volta espressive, che il terrore le dipinge in volto… piccola “Urlo” di Munch post-consumistica.

Ha le sopracciglia disegnate a matita, e le dipinge nuove, arcuate in un paio di tragici ponti sul mare della paura che le sono divenuti gli occhi: due palle liquide e non più vitree, due palle vive di pura angoscia. Il sorriso, come un tratto curvo di matita, è divenuto un tondo scomposto, ovoidale… e i due puntini che prima tratteggiavano le sue narici, sono ora cerchietti dilatati, da scrofa, alla ricerca di aria, mentre la consapevolezza del terrore la costringe a cacciarsi tra i polmoni di spugna tutta l’aria che può.

Io su di lei, inginocchiata a gambe larghe, con la sua testa proprio sotto il mio pube e le dita ad inchiodarle mani e piedi, divaricate, contro il materasso, contro la federa. Mi sorridi e lasci che la lama del taglierino scorra verso l’esterno… lentamente, senza fretta. Lasciamole mangiare ancora un po’ questa morte che le si avvicina, la guarda, la tocca di sotto e le accarezza il seno, lasciva. Anche il tuo coltello ora è dritto, tutto sfoderato, come la carne che presto mi darà piacere, zittirà con foga e passione le urla del mio sesso.

Siamo pronti…
Mentre la punta della tua lama, affilata, le entra proprio tra le gambe, sotto la gonna, ho un sussulto assieme a lei. A me pare quasi d’averti

sentito premere discreto col tuo sesso contro le pareti umide della mia grotta… per lei è viva solo una sensazione acida, bruciante: quella d’una lama che la squassa, la sventra con una lentezza esasperante aprendola sotto, da parte a parte. Sogno il tuo viso, le lenzuola, inondate d’un rosso scarlatto che, però, non viene fuori… E’ solo finta, fintissima ovatta, a simulare la pienezza della pancia, la durezza del petto, il seno formoso ed il sedere di burro.

E’ solo finta ovatta quella che gli strappi piano, frugando con le dita nello squarcio col quale l’hai sventrata. E’ solo finta, fintissima ovatta… e tu l’hai uccisa per finta. D’un tratto mi raffreddo. D’un tratto tutto mi sembra stupido, inutile. Scaccio via il sogno, ancora scuotendo la testa ed aiutandomi con una mano, a fare vento che si porti via tutte queste stronzate…
Stronzate. Sono solo un mucchio di stupide baggianate quelle che avevo in mente.

Non lo farà mai! Lo amo, è vero… e lui ama me, ne sono convinta. Purtroppo, però, non la ucciderà mai. Potrei implorarlo, minacciarlo, urlargli in faccia tutto quello che voglio. Mi prenderà per matta. Non lo farà mai. Potrei farlo io, certo, ma so cosa succederebbe dopo… so cosa mi aspetterebbe: la sua ira, la furia d’un uomo cui il segreto più prezioso viene disgelato. Lo so, urlerebbe come una furia, rompendo l’incanto di questo momento così magico, così azzurro, così placido… e questo non posso permetterlo.

A nessuno, neppure a me stessa! L’odio m’accende d’una vampa nuova, questa volta dal cuore fino alla spina dorsale, regalandomi una puntura intensa, seppur breve… e lasciando le mie mani e le gambe a tremare, nervi completamente tesi, davanti a quella visione.
La guardo ancora, quella sgualdrina… la guardo ancora mentre mi fissa beffarda, con un ghigno maledetto stampato su quella sua faccetta di pezza bianca. Non un filo di polvere, su di lei.

Ci tiene tanto, per tenerla così pulita, per prendersi cura di lei così maniacalmente.
“Hai visto stupida? Ti sei arresa, finalmente? Non potrai mai averlo. Mai!”… è lei che mi sussurra, con tutta la spocchia e la superiorità che ha in quel cuore di straccio, il risultato della nostra battaglia, che mi comunica ammiccando, sadica, la sua vittoria. Ti odio Emilie, con tutto il mio cuore. “Odiami quanto vuoi, cara mia… ma, vedi, tu puoi averlo di certo quando vuoi – smettila – … su questo letto o altrove.

Potrai sposarlo, potrai farci dei figli, scoparci, farti sbattere come ti piace –smettila stronza – …o fare all’amore ogni notte. Non mi interessa. Tanto sai meglio di me che, quando non ci sarai, o sarai di sotto, nella vostra cucina – ti ho detto zitta puttana! –
…a preparargli la cena, sarà da me che correrà, si chiuderà nel suo studio con me e tornerà a sfregarmi sul suo bozzo. Soli, io e lui, nella nostra alcova proibita, segreta.

Tu saprai – Zitta! – …lo saprai ogni volta, ogni

volta che lui m’avrà avuta o che io avrò avuto lui, tu lo sentirai, potrai leggerlo nel suo sguardo rilassato, appagato… nel suo sguardo di uomo”. Non resistevo più, avrei voluto sgozzarla lì, sul posto, svuotarla e farla penzolare come un palloncino bucato, giù dal soffitto. Lì, tra le cosce, anche se solo per poco, pulsai ancora. “E non potrai che accettare in silenzio tutto questo… rassegnati.

” E fece spallucce al mio sguardo carico di lacrime fatte d’odio, di cristalli di puro furore.
“Basta fare di nuovo il mio gesto con la mano, stringere gli occhi mentre faccio di no con la testa, per scacciarla via… avanti, vattene!”. Eccola lì, invece, che sposta gli occhi dal mio viso al suo sesso, al sesso del mio Amore, nascosto dal lenzuolo.
Ha ragione, quella stronza ha ragione… lui non sarà mai davvero mio!
A meno che… a meno che… a meno che io… non glielo porti via in qualche altro modo.

Ne conosco solo uno, un modo solo… ma poi non potrei averlo mai più con me. Dovrei tagliare la gola a lui, nel sonno, mentre non può sentire, vedere, capire nulla… e guardarlo andare via sereno, mentre il letto si fa rosso di sangue, mentre sul lenzuolo si disegna una ragnatela nuova di rubino scarlatto, pesante. Di certo sarebbe sempre così, perfetto nella sua giovinezza, splendido, in quel rassicurante sonno del dopo orgasmo, in quella luce sognante, con quella brezza della sera, carica di stelle a raffreddare il sangue che inzupperebbe le lenzuola.

No!
Lo perderei. Se facessi così, lui non sarebbe più qui con me. Un funerale, una bara da chiudere in faccia al mio Amore… e lui sotto tre metri di terra o peggio in un cassettone di cemento. Al solo pensiero, lì sotto, avvizzisco, marcisco come marcirebbe lui, sotto terra, nel cassettone, morto… divorato dalle larve, ingiallito, gonfio di gas.
E’ allora che, brillante, un’idea mi soffia piano sul collo, leggera, calda… come il mio Amore aveva soffiato sul mio orecchio, prima di prendermi con passione, senza fretta, lì sul letto, solo due ore prima.

Quel soffio mi rimanda subito su di giri. E’ solo un pensiero, ne ha la stessa consistenza e velocità. Ma mi entra in testa, scende nel mio stomaco a dargli energia, potenza, a rivitalizzarlo squassandolo con crampi di fame, per poi sprofondare ancora più in giù, nel mio sesso che si tende per non esplodere, sboccia… e si riempie di sangue ed umori, tra le vene e tra le pieghe della pelle.
E’ la soluzione: l’avrei sempre con me, sempre dentro di me… per sempre! Per sempre lontano da quella puttanella che, invece, costretta a guardarci lì, mentre applicavo alla lettera tutte le istruzioni che stavo iniziando a darmi, morirebbe d’invidia e resterebbe atterrita da tutto l’amore e tutta la passione che il mio pensiero, la mia Idea, porta con sé.

Non sarebbe potuta andare in modo diverso, ne ero praticamente certa… La mia mano é sul lenzuolo. Afferro la stoffa leggera che lo copre solo
per una mezza metà. La sposto, scopro tutta la sua bellezza, riporto alla luce azzurrina il suo sesso scuro, tinto d’argento da quella luce soffice. E’ nudo. Di nuovo nudo. Di nuovo mio. Mi muovo piano per non svegliarlo e lenta, delicata, passo una gamba su di lui, scavalcandolo per metà, finendo cavalcioni sul suo bacino rilassato.

Piano, pianissimo, con tutta la gentilezza che serve… perché dorma ancora quando inizierò a farlo mio. Pianto le mani sul materasso, una a destra del suo petto, una a sinistra e lentamente, in silenzio, scendo col mio sesso sul suo, ancora morbido, ancora addormentato, mentre tra le mie cosce vorrei cacciare un bavaglio, per impedire che lei, lì sotto, gli urli in viso tutta la sua passione.
Ci siamo. Adesso che sono tutta su di lui, adesso che i miei capelli quasi si intrecciano ai suoi, facendogli solletico sulla fronte, adesso posso scendere piano a svegliarlo.

Con un bacio leggero che si fa via via più deciso, un peso che cresce sulle sue labbra, gliele bagna di passione, le avvolge tra le mie in un bacio feroce e appassionato… un bacio senza fine. Si risveglia, il mio Amore… ed è un turbinio quello che mi coglie. La sorpresa pare sia assolutamente gradita. Mi dimeno su di lui vorticando il bacino su quel suo perno che inizia a protestare, a farsi gonfio, a pulsare, mentre il mio respiro cresce inseguendo il suo, sempre più forte, sempre più secco, sempre più caldo.

E’ un attimo, uno solo, ed è subito dentro di me. Fermo mio Amore, non agitarti, non muoverti: farò tutto io. Mi muoverò sinuosa, come so che adori, flettendo le mie ginocchia, rilassando e stringendo più forte i polpacci, flettendo tutte le mie cosce, con gli occhi fissi nei tuoi, ridotti ad una fessura dal piacere. Sei folle, folle come me del piacere che questo nostro amore ti regala… ed Emilie è solo una palla di pezza che immobile, su quella mensola, ci guarda quasi distratta.

Non mi freghi, puttana. Ci vuol poco a fingersi assente, ci vuole davvero poco a trattenere la tua rabbia di stoffa in quel cartoccino di bottoni e stracci che è il tuo petto… non credere di fregarmi così. Quanto vorrei…
Big Jim ha bevuto, oggi come ogni sera. Big Jim torna a casa. Big Jim ha fame… ma non ha voglia di nulla per cena. Non è quella la sua fame. Tira dritto per la cucina, senza salutare nessuno.

Lì, ai fornelli, la sua mogliettina smanetta frenetica per preparargli una gustosa minestra. Ma Jim non ha voglia di mangiare: non è quella la fame che sente… non è lo stomaco a prudergli, no. Quei crampi sono più in basso, tra i peli sotto la pancia gonfia di birra. Emilie, la sua nuova mogliettina porta in tavola il piatto con la zuppa fumante. “Cosa cazzo è questo schifo, troia?”. Il piatto vola giù dal tavolo, si schianta sul pavimento… con un frastuono breve e tagliente di ceramica.

Quella pezza con la faccia di ragazza si porta i

moncherini che chiama mani alla bocca: non ha dita, solo due palline inutili. Gli occhi le si allungano verso l’alto, come due ovetti di Pasqua… e le sopracciglia si fanno indietro per lasciare posto a quelle palle inutili. “Non vali un cazzo, non me lo tiri neppure, sai? Tutta piatta, tutta chiusa, senza un filo di tette sode, senza fianchi… ma ti sei vista? Come cazzo m’è saltato in mente di prendere te? Dovrei strapparti in mille pezzi.

Tanto più che non hai nemmeno un bozzetto di sedere lì dietro. Dove cazzo te lo metto, eh? Me lo sai dire tu? A che mi servi, stronza di pezza?”. Emilie inizia a singhiozzare lacrime di pailettes – è così che piange quello straccio sporco. Sono lì che mi dimeno sul mio Amore… e mi godo la scena.
Big Jim si è alzato in piedi. Big Jim l’afferra per la gola. Big Jim la sbatte sul tavolo, le tira su la gonna, le strappa quelle stupide mutandone da vecchia e… non ci trova nulla.

Solo stoffa, senza lo straccio di un buchetto da prendere a forza. A Big Jim non piace tutto questo. L’afferra di nuovo dal collo. Stringe. Tutti i suoi muscoli di gomma sono tesi allo spasimo; sembra quasi che i gomiti di ferro filato stiamo per stracciare la pelle, in corrispondenza della giuntura. La faccia è diventata mostruosa… la faccia di entrambi. Quella di Big Jim fa spavento. Emilie, violacea, con gli occhi tutti sgranati, le rughe lì accanto evidenziate come solchi tragici, la pelle del collo che sale a formarle un assurdo doppio mento, la bocca storta, platealmente spalancata.

Emilie mi fa ridere. Emilie mi fa impazzire… mi muovo più forte mentre sento che Big Jim ha quasi finito il suo lavoro.
Mi muovo più forte mentre ti sento godere. Mi muovo ancor di più quando riguardo Emilie, lì sulla mensola, morta, immobile, sciatta. Mi muovo mentre sento che forte, prepotente, un orgasmo torna a squassarmi.
Ansimo forte mentre scendo sulle tue labbra a baciarti. Sei splendido con il sudore ed il piacere che ti distendono il viso, lo rendono luccicante in questa notte che si fa alba, che viene a tingere le pareti di una nuova luce, più bianca… più adatta a lasciare ogni dettaglio vero: il sangue rosso, i miei umori bianchicci, la saliva risacca pulita.

Ti bacio, e tu ricambi sfinito, dopo aver lasciato il tuo seme dentro di me. Tra le lingue che si incrociano, le labbra che si scontrano, i denti che sbattono l’un l’altro… faccio appena in tempo a dirti che “prendo la pillola… sta tranquillo”. Faccio appena in tempo a dirmi che… che il momento è venuto. Il bacio è magia… sarà questo bacio che inizierà ad unirci. Le mie mani passano dal materasso a premere sui tuoi gomiti e, così, piano, inizio a mordicchiarti le labbra, il collo, le spalle… piano, con leggerezza.

Sospiri, sorridi e piano tiri l’aria tra i denti, come a dirmi che un po’ appena un po’ ti fa male. Continuo. So che lo adori. Ma adesso è il momento, è il momento davvero. Calo ancora sul tuo collo, Amore… e questa volta stringo, serro i denti, tra loro la tua carne che sembra quella di una barbie. Serro forte… non devo lasciarti

scappare. E’ dura, difficilissimo… lo so Amore, so che può far male, ma, pensa… saremo assieme per sempre.

Nei timpani solo le tue grida, stridule… incredule, irreali. Le tue grida, che, così, non ho mai sentito. Saremo sempre insieme. Sempre. Inizio a sentire caldo in bocca, a sentire pieno di un liquido… salato, ferroso. Scuoti il collo, dimeni la testa… e ancora strepiti, urli note secche, grida di ferro, come unghie sulla lavagna. La pelle ha ceduto, Amore mio… ha ceduto. Inizi ad urlare adesso, un urlo continuo… e le tue braccia impazzite, epilettiche, mi costringono ad alzarmi quasi in piedi su di te, frenarti con tutto il mio peso a letto ed urlare Ti Amo, Ti Amo, anche per coprire la tua voce.

Hai gli occhi impazziti… hai gli occhi che sanno di paura, dipinti di terrore. Calo sulle tue labbra, ora, con la faccia piena del tuo sangue, in una maschera rossa, brunastra, densa, che cola giù seguendo i miei zigomi, il mio mento. Sento il tuo collo spruzzare irregolare sul mio petto tutto il tuo nettare. Calo sulla tua bocca. Che dolce impiastricciarci così le labbra, non trovi? Ti voglio ancora, ancora dentro di me… e il tuo sesso che ancora tengo serrato lì sotto non mi basta: voglio le tue labbra ora.

Mordo ancora, mentre le tue urla si sono fatte quasi insopportabili, canine. Urli disperato, ti contorci… sei diventato difficile da trattenere. Non v’è più stridore nei suoni che lasci andare: si son fatti grugniti rochi, disperati. Non avere paura amore mio, non temere: sarai dentro di me. Quando urli a bocca piena, con il labbro inferiore che ti pende sul mento, aperto, scendo ad afferrare la lingua. Le tue urla si sono fatte di nuovo acute, gracchianti, mentre sento le vene attorno al frenulo, lì, cedere e riempire ancora la mia bocca.

Non voglio berti… voglio assaggiarti piano, in ogni dove, conoscerti tutto e ingoiare piano piano pezzettini di te. Quando anche la lingua è venuta via, amore, rantoli e gorgogli come una macchina che tira su un caffè rosso bruno, schiumoso. No, non puoi spegnerti prima che t’abbia morso anche il petto, proprio dove batte il tuo cuore. Voglio sentire in bocca un pezzo di quella pelle che te lo copriva, sentire giù nel mio stomaco, riflesso, anche solo un po’ del tuo battito.

Quando mordo il capezzolo sento che ancora sospiri… cucciolo di cane sfinito dopo un intervento a crudo, senza anestetico. L’amore lascia che batta ancora il tuo cuore. E io lo sento sulla lingua, uno degli ultimi tuoi battiti, mentre mordo, tiro, stacco. Il tuo naso, ora, le tue labbra di nuovo, e poi i lobi delle tue orecchie… e ancora la pelle dei tuoi zigomi, morbida, quasi gommosa… e ancora i glutei, i talloni duri e i fianchi magri… fino alle scapole ed alla nuca ricciuta.

Mordo, e mordo ancora… il sangue lento, poco, viene ancora fuori per farsi bere… ma non ne ho voglia Amore mio. La tua carne scende giù dentro di me, da nuovo calore… e, per un attimo che ancora dura, mi pare di sentirti ridere, sospirare, parlarmi… lì, dal mio stomaco.

Guardo Emilie, inutile, disperato cadavere, lì sulla mensola. “Come la mettiamo, ora, stronza?”. Le sorrido ironica… cattiva, lo so.
Quando esco dal bagno della tua stanza è già mattina.

Ho dovuto lavare quelle righe, quelle pozze, quelle macchie rosse che non volevano saperne di venir via. Adesso, alla luce di quest’ora nuova, amore mio, sembri anche più bello. Il tuo letto s’è fatto di lenzuola di rosa… e così, un po’ strappato, mordicchiato, lacero e rosso, così mi piaci di più. Così ti amo di più, Amore mio… così ti amo di più, anche dentro di me!.

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